giovedì 29 agosto 2013

21 grams

Leggo le lettere che l'amante di YSLaurent gli ha scritto dopo la morte. Una specie di diario postumo, uno zibaldone nostalgico e estremamente sincero, d'altra parte è più facile parlare a un morto, come amarli: i morti non commettono errori. 

"[...]Christopher mi ha detto che non riconosce mai le persone quando sono morte. Bill aveva il viso enorme, steso sul cuscino del feretro. Non restava nulla della sua leggerezza. Lo stesso è successo con te. Pierre ha fatto una foto. Bella del resto, ma non sei tu. Propabilmente quelli che preparano i corpi non li hanno conosciuti da vivi. Basta poco per cambiare un viso. Guardo spesso quella foto. E' vero che, con gli occhi chiusi, molto del tuo fascino è venuto meno. Certo, eri molto ingrassato, eppure emanavi una grazia sorprendente. E poi, ma in questo non sei il solo, senza gli occhiali sei un altro. Si mettono gli occhiali a un morto?"(dalla lettera datata 13 gennaio 2009, P.Bergé, Lettere a Yves Saint Laurent, Archinto 2012).

Pochi giorni fa ero al Cimitero Maggiore al funerale del padre di una cara vecchia amica e ho scritto un racconto dal titolo "Adriano e il phaser", eccone un estratto:

"K. strizza gli occhi perchè il sole si riflette sugli scalini bianchi producendo un riverbero fastidioso. Ci sono due tavolini di velluto nero, ai lati del portale della cappella su cui campeggia il viso del defunto. E’ una foto che gli ha scattato la figlia, giusto due anni prima, nella laguna, in una gita in bici. Adriano sorride, ha gli occhiali da sole e la pelle abbronzata. La stessa foto è nei santini che la madre ha fatto plastificare, eppure il ricordo che K. ha di lui è diverso. Guarda quella foto e cerca di ricordare l’ultima volta che l’ha incontrato, ma l’idea che si materializza nel cervello non corrisponde. La nostra memoria agisce sul mondo cambiandolo a nostro piacimento, spesso confondiamo situazioni, città, usiamo l’acqua per sfumare l’acquerello dei ricordi, continuamente."

Non bisognerebbe mai identificare un morto perché quello rimane l'ultimo ricordo che ci portiamo appresso negli anni. Vedo ancora mia nonna materna e la mano rattrappita dall'artrosi e lo sguardo vacuo, di una vecchia stanca che non riconosce l'amato nipote. E l'altra nonna ormai in coma nella Casa del Giubileo di Abano con la lingua ormai nera. E mio nonno Enrico con un busto che spuntava da sotto la camicia inamidata a sorreggergli il mento. E' come se uscendo, lo spirito scollasse i tessuti, le membra, i muscoli le cartilagini e quel puzzle miracoloso non risultasse più se non un coacervo di cellule buttate lì alla rinfusa. Non c'è qualcuno che parla di peso dell'anima? 21 grammi se non erro.

"Stefania guarda quella cassa levigata e pesante, ma non così pesante come sarebbe se dentro suo padre stesse dormendo, che morendo, inspiegabilmente il peso dell’anima svanisce e tutto ci sembra più leggero. Guarda quella bara e cerca senza riuscirci di ricordare il padre illuminato dalla luce della laguna e dai riflessi dell’acqua salmastra, ma il ricordo si confonde con l’immagine dell’obitorio, di un viso che era di suo padre senza più esserlo e così durante tutta la cerimonia combatte lungamente tra le due foto cercando di stemperare la seconda con l’acqua senza riuscirci, un acquerello che non le viene fuori, macchie di colore indistinte e la sensazione di impotenza di fronte a qualcosa che non c’è più."(Enrico Maria Bertelli, ibidem)


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