lunedì 1 dicembre 2014

la sposa


Era arrivata vergine alla notte fatidica, dopo che s’era sfilata l’abito, espellendo a uno a uno quei bottoncini di madreperla, compiendo l’azione inversa del torero, visto che per lei le lenzuola sarebbero state un’arena. Imbarazzo. Sì ancora quella parola poteva descrivere la sensazione di trovarsi nuda davanti a uno sconosciuto che conosceva da anni, quattro forse, di più, anni di fidanzamento, ma non si conosce nessuno veramente se non lo vedi gemere. Le puttane conoscono meglio gli uomini delle mogli, ne conoscono gli umori, gli odori segreti, i segreti stessi. Era una camera ad Urbino, una notte di maggio stranamente afosa. “Non ti preoccupare, sarà bellissimo”, le aveva detto il marito-ragazzo e lei si era lasciata andare, titubante come quando cercava di nuotare al mare, mantenendosi sempre ad una distanza di sicurezza dalla riva. E avevano fatto l’amore in fretta, senza preliminari. Aveva avuto paura di guardargli il sesso eretto, un sesso che conosceva attraverso i vestiti quando si baciavano. Aveva sentito un po’ di pressione là in fondo, poi una leggera fitta e il sangue era sgorgato appena. Non ricordava piacere. Poi si era addormentata quasi subito chiedendosi se in fondo era poi tutto lì, il sesso. Lui voleva sempre fare l’amore, ogni notte e lei non capiva perché, voleva sapere se c’erano regole in quell’obbligo o se davvero una brava moglie doveva farlo sempre quando il marito voleva. Ma negli anni ’50, i favolosi, non era una conversazione da tenersi a tavola con le amiche, tanto meno con la madre, che, a dire il vero, più sfacciatamente della figlia declamava le prodezze erotiche del marito. Ora. fortunatamente, è dispensata dalle carezze insistenti, dai baci troppo umidi, da quella sensazione di sporco appiccicoso. Non è più costretta a andare a letto insieme col marito, ma può far tardi, se vuole, a guardarsi un vecchio film in bianco e nero alla tivvù senza sentirsi in colpa. Non era così che immaginava il suo matrimonio o forse non pensiamo mai che il tempo passerà e gli occhi si faranno stanchi come stanco sarà il cuore. Si era immaginata sulla sedia a dondolo in un portico di legno a guardare il tramonto lontano in una campagna di sogno, aspettando le stelle a vortici come nei quadri di Van Gogh, il suo pittore preferito. Serbava ancora una cartolina del museo di New York che aveva visitato millenni prima in una Pasqua sbiadita, chiusa insieme alle multe pagate e sempre cronologicamente conservate per non farsi trovare impreparata. Quelle stelle incastonate in cerchi come fissati da una pellicola in ore e ore a ricamare il lento muoversi del pianeta. Si ricorda che davanti a quel quadro si era commossa e poi aveva cercato tutti i cieli notturni del folle rosso e poi altre stelle di altri pittori, ma era una ricerca difficile e non se ne occupava nessuno. Lui non aveva capito, preferendo i blocchi rarefatti di Cézanne o le bottiglie diafane e quasi tremolanti come fantasmi di Morandi. “Le stelle sono immobili, non vorticano; era già pazzo qui.” Eppure spesso in certe notti buie senza luna fumava da sola in giardino e avrebbe detto d’essere sicura che gli astri danzavano per lei. Poi un pomeriggio era stata in visita coi parrocchiani alla Cappella degli Scrovegni e aveva capito. Erano entrati subito che ancora non c’era il labirinto in vetro intrappola polvere e così non si era preparata. All’interno per un attimo l’oscurità l’aveva acciecata, ma quando gli occhi s’erano abituati allora aveva visto. Su oltre i sassi e gli alberi in lontananza e i cavalli e le città e gli uomini, su fissò la volta blu. Erano milioni quelle stelle d’oro, perfette e ortogonali come le file dei bottoni delle uniformi di gala, tessevano il firmamento, perfette quanto i pixel di uno schermo. Le girava la testa, ma avrebbe voluto chiedere perchè non vorticassero quelle stelle immobili, che non era così. Eppure a distanza di secoli dal quel terribile sì sussurrato appena, il suo cielo aveva rallentato fino a fermarsi immobile, senza più vortici, ma righe di imperturbabili bottoni d’oro, infilati nella carne a uno a uno come quei bottoni di madreperla del vestito da sposa.
(tratto da "La madre")

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